Ho avuto mio figlio a 40 anni e il vero parto non è stato metterlo al mondo, ma avviare l’allattamento.
Ero convinta che per darlo alla luce avrei dovuto sopportare dolori indicibili, ma che poi, se fossi riuscita a sopportarli, la creatura avrebbe succhiato voracemente dal seno.
Invece Luca è sbucato dalla pancia in un modo delicato che non mi sarei mai aspettata, ma i suoi 2,7 kg di peso per 51 cm di lunghezza erano disinteressati al nutrimento. È nato alle 16 e abbiamo passato la prima notte insieme ad osservarci da vicino nello stesso letto, ogni tanto lui rigurgitava il liquido amniotico bevuto durante il parto e io lo pulivo, ma per il resto ci siamo guardati a lungo negli occhi. Un’ostetrica è venuta ad aiutarmi a cambiarlo ma quella è stata una notte di emergenze all’ospedale e noi siamo rimasti per lo più da soli.
Dal mattino dopo, mani sconosciute anche se amorevoli hanno manovrato i miei capezzoli e in mille modi hanno provato a inserirli nella boccuccia rosea che non tirava. Con una siringa gli hanno dato un po’ di latte artificiale che lo ha letteralmente steso.
Il terzo giorno il mio seno si è gonfiato ed è diventato bollente; mi hanno insegnato le spugnature calde per ammorbidirlo e mi hanno portato un tiralatte che non spremeva praticamente niente. È stato a quel punto credo che ho sentito qualcuno di autorevole dire “non c’è latte”.
Siccome io non ci potevo credere (ero sopravvissuta al parto e il mio bambino era sano!), ho continuato a estrarre gocce col tiralatte e a provare ad infilare i capezzoli nella boccuccia. Qualcosa è successo, perché il suo modo di attaccarsi ha cominciato a farmi male. Così ho iniziato a usare i paracapezzoli di silicone, che però sembravano rendere ancora più difficile la suzione. Alla dimissione Luca pesava 2,4 kg e nella mia testa quel sussurrato “non c’è latte” era diventato un forte “non ce n’è abbastanza”.
A casa, dopo la poppata, davo l’aggiunta. I tempi si sono allungati in maniera biblica, almeno mezz’ora per lato, poi l’aggiunta, poi il tiralatte, poi era ora di ricominciare. Di notte era durissima.
Per non farlo affezionare al nemico biberon, ho usato il DAS, il dispositivo di sostegno all’allattamento, in modo che il latte sgorgasse apparentemente dal capezzolo con un impegno a succhiare da parte di Luca con la conseguente sollecitazione della produzione del mio latte. Il funzionamento del sistema, la notte, quando non c’era nessuno ad aiutarmi, mi faceva diventare isterica. Ogni goccia di latte mio spremuto per Luca mi sembrava preziosissima, odiavo il tiralatte ma non mi sentivo autorizzata a smetterlo di usarlo, anche se mi faceva passare la notte in bianco.
Dopo un mese e mezzo di questo travaglio ero arrivata a pensare che fosse troppo tardi, che dato che l’allattamento non si era ancora avviato, non si sarebbe avviato più e il latte sarebbe andato via. Ma non mi era possibile mollare, tenevo duro, aspettando che fosse una causa di forza maggiore a farmi passare all’artificiale. Invece proprio a quel punto Luca ha cominciato ad addormentarsi dopo la poppata al seno, nel momento in cui era prevista l’aggiunta. E io, nonostante chi diceva che l’affamavo, ho deciso di non svegliarlo e di aspettare la poppata successiva. Non abbiamo più comprato latte artificiale.
Ho comunque continuato a dubitare che il mio latte fosse sufficiente per farlo crescere, ogni grammo di peso guadagnato mi sembrava una conquista, ma temevo di illudermi. Solo quando sono rientrata al lavoro, Luca aveva 7 mesi, e dopo 3 ore dovevo andare in bagno a togliermi il latte e ne usciva un biberon, mi sono resa conto che potevo tranquillizzarmi. Avevo il freezer pieno di quei biberon, per le emergenze, mi dicevo.
Per quasi tre anni l’ho attaccato al seno per nutrirlo e dissetarlo, per addormentarlo, per far passare la paura e il pianto, per scacciare il mal d’auto e il mal di mare e per evitare il mal d’orecchi in aereo, per ritrovarci dopo un distacco, per accudirlo mentre facevo altro o anche senza sapere perché, solo perché lo chiedeva.
All’inizio ero impacciata, la posizione sempre la stessa, seduta col cuscino dell’allattamento per sorreggerlo a culla, non avevo mai la preziosa acqua da bere vicino a me e non riuscivo a muovermi col bimbo al seno, dovevo sempre chiedere. Puntualmente, quando era pronto perché io mangiassi lui piangeva, così papà Andrea aveva preparato una postazione in tinello con poltrona e tavolino su cui mettere il piatto, e io ferma come una sfinge venivo imboccata mentre Luca succhiava. Dopo mesi insonni ho imparato ad allattare da sdraiata, e finalmente a dormire! Attaccalo di qua, dormi, attaccalo di là, dormi, ricordati di tenerlo in mezzo! Poi ho imparato ad allattare comunque (mentre ero ai fornelli, sulla tazza del water, mentre camminavo) e ovunque (in spiaggia d’estate e in un rifugio in quota d’inverno, al parco, in auto, anche in chiesa).
Lo rifarei? Tutto rifarei, anche se vorrei aver sofferto meno.
Attraverso questo gesto misterioso, attaccare al seno, che all’inizio mi sembrava impossibile per me e Luca, io sono diventata una mamma. Non perché ci sono riuscita, ma perché ho imparato ad osservare il mio bambino, ad ascoltarne i bisogni, a conoscerlo e soprattutto ad accoglierlo, che è quello che mi auguro di fare per tutta la vita.
Adriana